di Chiara Mineo
Per i cinesi il drago non è una creatura malefica ma un dio amico degli uomini che lo venerano. Esso «ha in suo potere la prosperità e la pace». Reggitor delle acque e dei venti, manda la buona pioggia ed è pertanto simbolo della fecondità. Nella dinastia Hsia due draghi si batterono in un terribile duello fino a scomparire entrambi, lasciando solo una fertile schiuma, da cui sorse la progenie Hsia. E così i draghi finirono per essere considerati i capostipiti di una razza di eroi.
La citazione che leggete qui sopra, in realtà, è il prologo di questo libro, che ho dovuto recuperare cercando tra una vecchia foto della pagina fatta nel 2015, quando già avevo il presentimento che sarebbe stata una saggia scelta quella di fissare a futura memoria la frase.
Scelta azzeccatissima: se potessi mostrarvi la mia copia di questo libro rimarreste inorriditi. La frequenza con cui è stato preso e ripreso in mano, le numerose letture che hanno gravato sulle pagine ormai consumate, gli svariati avventori che per brevi periodi l’hanno custodito come prestito, insomma tutto quanto ha contribuito a far scollare le pagine e la copertina, che in parte sono state perse e in parte mescolate. A ciò si aggiunga che, come tanti dei libri che ho letto, anche questa edizione apparteneva a mia mamma (e uso volutamente l’imperfetto perché ormai lo considero usucapito!), quindi le mani che hanno sfogliato questo volume sono state numerose e gli anni che gravano sulle sue pagine non sono pochi.
Questa lunghissima premessa era doverosa, a mio avviso, proprio perché ci troviamo di fronte ad un libro che ho letteralmente consumato con la lettura e divorato parola per parola più volte nel corso degli ultimi 20 anni, catturata fin da quelle prime righe che ho letto, che già portavano in dono promesse di viaggi lontani, storie fantastiche e paesi sconosciuti.
La stirpe di cui si parla è quella di Ling Tan, e la sua famiglia è il centro del romanzo: siamo nelle campagne cinesi nella seconda metà degli anni ’30 del Novecento, la vita scorre lentamente secondo la cadenza della natura e del lavoro nei campi, le città sono lontane, i piaceri semplici, la felicità pare più autentica.
L’equilibrio quasi bucolico (inteso alla maniera dell’illustrissimo precedente Virgiliano), pur con le sue difficoltà, viene improvvisamente rotto dalle vicende storiche che irrompono bruscamente nella vita contadina di Ling Tan: i giapponesi hanno invaso la Cina e iniziano, brutalmente, ferocemente, a farsi largo sul continente mossi dalla sete di conquista, travolgendo e devastando ogni cosa si frapponga tra loro e l’obiettivo.
La Buck ci restituisce con grande abilità uno spaccato estremamente realistico della vita in Cina, fuori dalle grandi città, ispirata ai ricordi della sua infanzia quando – appena nata – i suoi genitori si trasferirono sulle rive del fiume Yangtze (nella regione dello Jangsu) per proseguire la loro opera di evangelizzazione in qualità di missionari presbiteriani. Eccetto che per qualche interruzione durante l’infanzia e dopo la maggiore età, Pearl Buck resterà in Cina fino al 1927 quando, a causa del clima di crescente ostilità nei confronti degli stranieri, sarà costretta a rifugiarsi in Giappone e in seguito ritornare negli Stati Uniti dove inaugurerà la sua carriera di scrittrice di successo, che la porterà a vincere – tra gli altri – il Premio Nobel e il Premio Pulitzer.
L’autrice è conosciuta al pubblico in particolare per “La buona terra”, opera che le è valsa la medaglia di riconoscimento da parte dell’American Academy of Arts and Letters, ma a mio avviso “Stirpe di drago” è il romanzo in cui – complice anche una maturità narrativa che le permette di aggiustare le piccole sbavature del primo libro – riesce a sublimare tutte le caratteristiche migliori della sua scrittura.
Mossa dall’orrore dei racconti e dei resoconti dei terribili eventi intorno al Massacro di Nanchino del 1937, vicenda ancora controversa (e causa tuttora di tensioni tra i due Paesi) in cui l’esercito giapponese si rese autore di atti estremamente violenti e feroci nei confronti del popolo cinese, si avverte chiaramente nell’autrice l’urgenza di raccontare una storia che possa rendere noti ad un pubblico più vasto dei fatti lontani ed estranei.
Il dualismo è la chiave del racconto della Buck: le contrapposizioni terra – armi, campagna – città, pace dei campi – guerra, coraggio – viltà, animano ogni capitolo e ci restituiscono un piccolo mondo di persone legate alla propria vita, alle proprie tradizioni, al proprio piccolo possesso, senza mai scadere nei vizi e nell’esasperazione dei desideri a cui la lontananza dalle cose che contano, quelle importanti (famiglia, casa, la cosiddetta “buona terra”), può portare.
Ling Tan e la sua famiglia subiscono un vero ribaltamento delle loro vite, sono costretti a confrontarsi con il mondo più grande là fuori, sono portati a scendere a compromessi eppure – nonostante le tragedie, i lutti, le ferite, i ricordi – l’autrice ci consegna un racconto che ha del mitico, che porta in sé quel respiro di riscatto ed eroismo che contraddistinguono quelle storie della tradizione orale popolare, presenti persino nelle parabole cristiane, per chi le conosce, quei racconti che narrano come gli uomini “normali” (ma anche le donne, grandi protagonisti e voci del romanzo) si trasformano in uomini straordinari.
...gli antenati avevano insegnato loro che nessun uomo onesto avrebbe mai voluto fare il soldato e che il guerriero era il più basso degli uomini e perciò indegno di rispetto...
Noi tutti, uomini pacifici e ragionevoli, tanto qui, sulla parte superiore della terra quanto quelli che penzolano, a testa in giù, dall'altra parte, dovremmo confederarci a rendere la vita impossibile a chiunque volesse scatenare la guerra.
VOTO: 5/5
Qualche informazione utile:
CASA EDITRICE: Mondadori
PRIMA PUBBLICAZIONE: 1941
PAGINE: 440
PREZZO: € 15
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