di Erica Delle Curti
Avevo poche e chiare regole da seguire: uno, prendere un ritmo e tenerlo senza fermarsi; due, non parlare; tre, davanti a un bivio, scegliere sempre la strada che sale.
Regola non scritta, universalmente cristallizzata: chi non ritiene che la propria passione stia sempre una spanna di figaggine sopra quella degli altri, mente.
Per i calciatori (ma lo stesso vale per i cestisti, i pallavolisti, gli scacchisti, i giocatori di curling…) il loro è “lo sport più bello del mondo, more than just a game”, per i musicisti “la musica è vita”, per i lettori “la lettura apre la mente” (ma Nick Hornby non vale, figurarsi Fabio Volo). E nella sottocategoria dei divoratori di libri appartenenti a circoli, gruppi e sette, è altresì consuetudine pensare che chiunque non legga un minimo di n libri l’anno sia da considerare alla stregua della capra sgarbiana. Nello specifico caso del nostro gruppo, il titolo di bovide ruminante spetta indiscutibilmente a me, che tento di battere su questi tasti con i miei zoccoli e vi asssicurp che nom è per nientr facilw.
Io non ho la presunzione di pensare che la mia passione “ce l’abbia più lungo” di quella degli altri, se non altro perché nel praticarla non è che mi senta un’eccellenza nazionale, anzi.
La mia passione non sono i libri. Questo forse in parte potrebbe giustificare il mio tasso di lettura di n -10 romanzi l’anno rispetto alla media del nostro circolo. Da buona capra, la mia passione è la montagna. Ma come spesso accade con le passioni, la mia si è rivelata soprattutto un punto debole. E nell’affrontare un libro che tratta questo tema mi è parso di sentire addosso una certa responsabilità, al pari di quando affronto la montagna stessa, con i saliscendi tanto fisici quanto emotivi che ne conseguono.
Probabilmente per questa ragione, Le otto montagne è stato per me “more than just a book”. Forse per qualcuno non “il libro più bello del mondo” ma certamente il libro di UN mondo: quello delle valli e delle cime attraverso cui si snoda l’esistenza dei due protagonisti Pietro e Bruno, raccontato da Paolo Cognetti in modo semplice ma magistrale. E quanto è bello quando questi due aspetti si fondono in un libro.
Ho pensato a lungo a quali parole utilizzare per descrivere la storia di queste due vite, per poi scoprire che qualcuno le aveva già trovate prima di me. Mi guardavano dal commento di Philippe Claudel in quarta di copertina: potenza e umiltà. Ritengo che un libro di montagna ben riuscito non possa che manifestarsi così, potente e umile, come in questo caso è anche l’amicizia che lega i due protagonisti dall’infanzia all’età adulta.
Pietro, il bambino di città che trascorre i mesi estivi a Grana, in Val d’Aosta, scappando dall’afa di Milano dove durante il resto dell’anno la sua famiglia trova lavoro, stress e infelicità.
E Bruno, il bambino un po’ troppo adulto, nato in quella stessa montagna che gli procura brutti voti a scuola in inverno e lavoro con le sue mucche al pascolo in estate.
L’incontro fra i due in questo villaggio di pochi abitanti è inevitabile. Altrettanto inevitabile è la fusione fra due mondi: quello dei Montanari e quello degli outsider della montagna, ovvero i giovani che durante l’anno arrampicano in una palestra di città con le prese colorate e che anelano alla roccia ma senza esserci nati e cresciuti. Senza esserne figli.
È questo che personalmente invidio e non riesco a perdonare alla gente di montagna come Bruno. La fortuna di nascerci e il coraggio di crescerci. Ciò che invece invidio a Cognetti sono gli aspetti della sua scrittura che maggiormente mi hanno portata ad apprezzare questa produzione.
Il primo è la scelta indovinata di legare il romanzo a delle coordinate reali. Scivolare nelle pagine e ritagliarmi un piccolo spazio sotto i larici a quota 2000 è stato semplice perché le realtà che descrive e le sensazioni che questi spazi trasmettono sono anche le mie. Sono mie le Dolomiti dell’infanzia, le Grigne all’orizzonte dei viali di Milano, la Valsesia ai piedi del Rosa. E sono miei gli scivoloni sui sentieri, le delusioni in falesia, i fallimenti che ti bloccano prima di raggiungere la cima. I sorrisi e le malinconie.
E appaiono parimenti reali quei personaggi che camminano e arrampicano fra le pagine, le cui caratteristiche ricordano facilmente quelle di alcuni grandi uomini della montagna. Rievocano infatti la caparbietà di un certo Jerzy Kukuczka, leggenda capace di salire tutti gli Ottomila esistenti sulla Terra, rigorosamente in inverno o aprendo nuove vie, e che, proprio a causa della sua caparbietà e di una corda da 7 mm spezzata nel momento sbagliato, perde la vita sulla parete sud del Lhotse, il cimitero migliore che il suo corpo potesse trovare. Ricordano anche l’ostinazione di un meno leggendario (ma non meno folle) Giuseppe di Alpe Sattal, uomo capace di costruire la sua baita a 2097m con il solo ausilio delle sue gambe e delle spalle cariche di attrezzatura, su e giù per il sentiero n.9, 800 metri di dislivello, due volte al giorno, per settimane. Uomini grandi, capaci di imprese che esulano dal nostro ordinario.
Ma c’è un altro aspetto che invidio a Cognetti, ed è la sua capacità di scoccare dardi. Periodi brevi, frasi minime piazzate al punto giusto. Niente arzigogoli letterari, niente intrecci emotivi capricciosi. Mai un fronzolo di troppo. Cognetti sembra scrivere senza impegnarsi minimamente a voler compiacere il lettore. Eppure, proprio per questo, riesce nell’impresa con un’efficacia incisiva e con un’eleganza rara. La freccia arriva precisa e colpisce il punto esatto al centro del bersaglio. E se quel bersaglio è anche un lettore particolarmente sensibile, arrivederci e grazie, chiudiamola qui e buono strazio interiore a chiunque sia tanto saggio da voler iniziare a leggerlo.
Cominciai a capire un fatto, e cioè che tutte le cose, per un pesce di fiume, vengono da monte: insetti, rami, foglie, qualsiasi cosa. Per questo guarda verso l’alto, in attesa di ciò che deve arrivare. Se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, pensai, allora il passato è l’acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso e dove non c’è più niente per te, mentre il futuro è l’acqua che scende dall’alto, portando pericoli e sorprese. Ecco come avrei dovuto rispondere a mio padre. Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa.
VOTO: 5/5
Qualche informazione utile...
Casa editrice: Einaudi
Anno di edizione: 2016
Pagine: 199
Prezzo: 13 €
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