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Le intermittenze della morte | Josè Saramago

di Claudia Gentile



C’è chi dice, con umore più cattivo che macabro, che la morte abbia affibbiato una specie di sorriso permanente, ma questo non è vero, ciò che offre alla vista è una smorfia di sofferenza, perché il ricordo del tempo in cui aveva una bocca, e la bocca aveva una lingua, e la lingua aveva saliva, la perseguita continuamente.

Già. Perché in questa storia la morte è proprio annoiata, insofferente, potremmo forse azzardare depressa.

Ma andiamo con ordine, perché prima di presentarci la signora morte (rigorosamente con la “m” minuscola, mi raccomando! È abbastanza permalosa sul punto), Josè Saramago crea una di quelle situazioni assurde ed estreme a lui tanto care. Ci ritroviamo nel solito Stato senza luogo e senza nome la cui popolazione, che in Cecità è improvvisamente diventata non vedente e in Saggio sulla lucidità ha votato in massa scheda bianca, ne Le intermittenze della morte improvvisamente non muore più.

Esattamente. Gli abitanti del nostro Paese non meglio specificato, di punto in bianco, smettono di passare a miglior vita.

Wow! Gran giubilo tra la popolazione! La più grande paura dell’uomo dal giorno in cui è stato schiaffato su questo schifo di mondo sparisce. Non si sa il perché (ma poi a qualcuno interessa veramente la ratio di questa benedizione?), non si sa il come ma un bel giorno la terza parca perde le forbici e la gente diventa immortale!


Ci pensa il narratore a smorzare in fretta gli entusiasmi e a metterci di fronte alla realtà nuda e cruda. La realizzazione del più grande desiderio dell’Uomo è una tragedia sotto ogni punto di vista: economico, sociale, etico.

La prima ad andare nel panico è ovviamente la Chiesa: che senso ha e qual è il suo ruolo se non può promettere all’uomo la vita eterna dopo la morte?

La seguono a ruota le assicurazioni, le imprese di pompe funebri e le aziende ospedaliere.

Ma la condizione diventa presto insostenibile a tutti i livelli e lo stesso Stato non sa più come far fronte al continuo invecchiamento dei suoi cittadini, al loro continuo deteriorarsi senza mai fine.

Proprio sulle “vite sospese” – ossia di coloro che sono ormai allo stato terminale della loro esistenza - Saramago ci offre una delle riflessioni più violente del libro: quale pena può essere peggiore di un’immortalità in fin di vita?

Ed è così che quella che all’inizio del libro sembrava una manna dal cielo si rivela presto un crudele supplizio.

Ma la protagonista di questa storia non si ferma qui e, resasi conto del gran pasticcio, cambia strategia e (sadica o ingenua?) decide che si torna a morire ma con un preavviso di 7 giorni recapitato al destinatario sottoforma di biglietto viola.

Ora, fermiamoci un attimo e proviamo a immaginare come reagiremmo nello scoprire la nostra data di scadenza, a iniziare a sentire il ticchettio delle nostre ultime 168 ore di vita.

Il panico viscerale che prenderebbe spazio in noi. Il dubbio se trovare conforto in un abbraccio dei nostri cari oppure se risparmiare almeno a loro la sensazione della punta della spada di Damocle che inizia ad appoggiarsi sulla nostra testa.

È possibile mettere da parte questo tarlo assillante e provare a rendere i nostri ultimi giorni sensazionali? O cercheremmo conforto nella nostra quotidianità?

Nella miscellanea di reazioni che ogni persona può avere una domanda è costante: qual è la vittoria della morte? Cosa ci guadagna lei da questa tortura? E questa domanda rimarrà per tutti senza risposta.

perché la morte non risponde mai, e non perché non lo voglia, ma solo perché non sa cosa c’è da dire dinanzi al più grande dei dolori umani.

Nella seconda parte il romanzo cambia impostazione: lo sguardo ampio che il narratorie ci ha dato, fino a questo momento, sull’intera popolazione stringe ora il suo obiettivo sulla signora morte, l’unico personaggio descritto in tutto il romanzo, sia dal punto di vista fisico che emotivo.


E da questo momento si abbassa un po’ il livello di coinvolgimento del lettore.

Mi spiego meglio, il racconto continua a essere magistrale ma lo spostamento delle vicende dal piano macro al dettaglio di un solo personaggio ti fa sentire meno parte delle tematiche trattate. Se finora le vicende di un gruppo indefinito di persone erano anche le nostre vicende, ora il lettore non rientra più tra i protagonisti della storia ma viene spostato dal palco alla platea di uno spettacolo che, sia chiaro, riesce comunque a coinvolgere e a suscitare empatia verso la protagonista e il suo dolore.


La scrittura di Saramago può essere un po’ spigolosa al primo approccio, a causa della costruzione sintattica, ma lo sforzo delle prime pagine vale sicuramente la pena.

Uno degli aspetti che amo di più è la sua capacità di costruire un dialogo diretto con il lettore, al quale spiega il perché sta raccontando i fatti in un determinato ordine piuttosto che in un altro, le sue scelte terminologiche o la corretta interpretazione degli accadimenti, tutto questo senza mai interrompere il fluire della trama o l’attenzione sui fatti raccontati.


Saramago vinse il Nobel per la letteratura nel 1998 con questa motivazione:

Grazie a parabole sostenute dall'immaginazione, la compassione e l'ironia, José Saramago ricostruisce e rende tangibile una realtà difficile da afferrare.



 

VOTO: 4/5

Qualche informazione utile…

Titolo originale: As intermitências da morte

Casa editrice: Feltrinelli

Anno di edizione: 2019 (edizione italiana)

Pagine: 218

Prezzo: 9,50 €

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