di Mattia Bertani
Ci piace pensare che abbia un certo valore, la vecchia banalità amor vincit omnia. Ma se ho imparato una cosa, nella mia breve, triste vita, è che quella banalità è una bugia: l’amore non vince nulla, e chi lo pensa è uno sciocco.
Al mio compleanno due mie amiche mi hanno regalato due libri: il primo me lo hanno consegnato dicendomi “ti piacerà un sacco”; il secondo me lo hanno descritto come “il libro più strano che abbiamo trovato in libreria.” Per Vostra fortuna, ho deciso di iniziare a leggere il primo.
Siamo al Hampden College, università del Vermont a cui s’iscrive il ventenne e squattrinato Richard Papen, protagonista del libro nonché narratore della storia. Richard, dopo aver rinunciato a studiare medicina, frequenta i corsi di letteratura e, dopo aver studiato, quasi per caso, greco antico nella sua precedente università, decide di continuare tali studi alla Hampden. Qui vi è un unico professore di greco, Julian Morrow: un insegnante tanto carismatico quanto eccentrico, inviso ai colleghi e adorato dai suoi pochissimi studenti. Sì, pochissimi, perché il corso di Morrow è molto elitario e seleziona gli studenti con criteri personali invece che accademici. I selezionati dell’anno raccontato nel libro sono solo cinque e Richard, dopo un iniziale rifiuto, riesce a diventare il suo sesto studente.
I suoi compagni di studi sono dei ventenni viziati e provenienti da famiglie agiate, al contrario suo, figlio di una famiglia piccolo borghese, e tenta di colmare questa distanza con la bugia di essere figlio di un petroliere californiano. Le lezioni di greco non sono delle banali ore dedicate alla traduzione di versioni ma sono uno studio appassionato dell’antica Grecia: Julian è un abilissimo oratore, più mentore che professore, ed esercita sui suoi studenti una influenza talmente spirituale che li fa diventare dei veri e propri discepoli. Morrow insegna il mondo antico nella sua interezza, dando la giusta rilevanza all’aspetto misterioso: la sfrenatezza, l’esaltazione, l’irrazionale (quello che Nietzsche chiamerà dionisiaco), erano infatti riconosciuti e pienamente accettati all'interno dell’antico pensiero greco.
È un’idea tipica dei greci, e molto profonda. Bellezza è terrore. Ciò che chiamiamo bello ci fa tremare. E cosa potrebbe essere più terrificante e più bello che perdere ogni controllo?
Richard per la prima volta nella vita si sente finalmente parte di qualcosa ed è risucchiato e affascinato da questi mondi: da Julian, visto come figura mistica e paterna; dai suoi compagni di studi, ragazzi ricchi e fedeli del suo stesso dio. Avverte però una certa riluttanza nei suoi confronti da parte dei suoi presunti nuovi amici; come se non fosse ancora degno della loro amicizia; come se gli altri avessero vissuto un’esperienza così unica che la sua assenza lo avrebbe sempre reso un estraneo; e come se gli stessero nascondendo qualcosa.
Il protagonista scopre che questa sua sensazione era vera. Henry, lo studente più brillante e capo indiscusso del gruppo, confessa a Richard che lui e gli altri avevano organizzato un baccanale, un antico rito dionisiaco di natura sia spirituale che sessuale, e che, in preda all’estasi e all’ebbrezza, avevano commesso un delitto: avevano ucciso un uomo, accidentalmente, e stavano cercando in ogni modo di non essere scoperti. L’influenza che Julian aveva nei suoi studenti era così profonda che li aveva portati a superare ogni limite e, quello che sarebbe dovuto rimanere un discorso filosofico, si era tramutato in un folle esperimento, concluso con la morte di un uomo ignaro di tutto, come un sacrificio rituale. Richard decide di aiutare i suoi compagni di corso a non essere scoperti e ne diventa davvero amico, aderendo anche al loro superficiale mondo di ricchi universitari.
Ma oramai il male, compiuto e accettato come un bene, li ha illusi che ogni limite può essere superato e, tracotanti, decidono di varcare ulteriori limiti. Tale decisione fa sprofondare tuttavia tutti i discepoli di Julian nella sofferenza e fa crollare il loro mondo. L’antico desiderio di superamento di ogni limite rimane una mera illusione, una dimensione magica troppo lontana dalla realtà moderna, basata sulla cultura della colpa che opprimerà poi tutti i protagonisti, con conseguenze ulteriormente tragiche.
Donna Tartt ci mostra quanto il male possa sembrare un bene e quanto questa sensazione sia una pura illusione. Con la sua scrittura limpida e fluida, ci accompagna nei meandri del male: la sua nascita casuale, la sua accettazione, la sua giustificazione, l’illusione che sia un bene necessario, la sua impossibile negazione e infine lo scontro interiore con il bene verso cui l’uomo cerca di tendere ogni sua azione. Tale conflitto avrà come epilogo il sentimento più pericoloso di tutti: il senso di colpa. L’autrice ci descrive tutte le varie tipologie di senso di colpa calibrandole sulle diversità dei personaggi: chi lo nega e nega così se stesso; chi lo accetta e ne soffre; chi ne è sconvolto e rischia l’autodistruzione. Ma lo fa in maniera subdola: lo fa con empatia. La scrittura di Donna Tartt ci fa comprendere appieno lo stato d'animo dei protagonisti, ci fa sentire i loro sentimenti, ma lo fa solamente per i carnefici, e non per le vittime. Le scene degli omicidi non sono descritte, non conosciamo la sofferenza degli offesi, ma sappiamo così bene i sentimenti dei carnefici che ci immedesimiamo in loro, facciamo i loro stessi ragionamenti, potremmo arrivare anche alle loro stesse conclusioni e... sentirci in colpa. L’autrice, per far comprendere al lettore quanto sia illusoria la bontà del male, descrive i suoi personaggi in maniera talmente empatica da farci entrare dentro di loro, farci sentire in colpa per le loro azioni, farci mettere nei loro panni per giustificarli, e poi farci uscire subito, dai loro panni e dal libro, e farci capire cosa sia l’autentico del senso di colpa.
Non è facile catalogare questo libro in un genere letterario: non è un romanzo di formazione, non è un giallo, non è un romanzo psicologico. Forse però è la stessa a Tartt a suggerircelo: nell’antichità, in occasione delle feste dedicate al dio Dioniso, proprio il dio della sfrenatezza, avvenivano le rappresentazioni teatrali. Dio di illusioni è una tragedia, moderna, sia per la struttura che per il contenuto: ha un breve prologo, pochi episodi davvero ben raccontati, i protagonisti si muovono quasi in maniera corale, i dialoghi sono le vere azioni della vicenda e alla fine vi è la catarsi, un ultimo fatto violento e ancora più tragico, che culmina il rito magico e purifica, o tenta di purificare, tutta la vicenda, cercando un capro espiatorio.
Il titolo originale del libro è The Secret History ma penso che il titolo della versione italiana, Dio di illusioni, sia non solo meno banale ma soprattutto molto più evocativo, con un dubbio: chi è il dio di illusioni? Dioniso, l’antico dio dell’irrazionale, il più umano delle antiche divinità greche e quindi forse il più pericoloso? Oppure il professor Julian Morrow, esteta ed ellenista, cultore del passato e forse ingenuo del presente? Oppure l’autrice stessa, Donna Tartt, che ci illude che il male possa ingannare solo gli altri?
P.S. Se siete curiosi di sapere il titolo dell’altro libro che mi hanno regalato le mie amiche, il libro più strano che avevano trovato in libreria, dovrete aspettare una delle mie prossime recensioni.
VOTO: 5/5
Qualche informazione utile…
Titolo originale: The Secret History
Casa editrice: Rizzoli
Anno di edizione: 2014
Pagine: 622
Prezzo: 13,00 €
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