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Il mio anno di riposo e oblio | Ottessa Moshfegh

di Chiara Mineo



Oh, dormire. Nient’altro poteva darmi altrettanto piacere, libertà, il piacere di muovermi e pensare e immaginare, al sicuro dalle miserie della mia coscienza da sveglia.

Galeotta fu la promozione di una nota casa editrice, quella che spesso propone la formula “due libri a 9,90 euro”, e galeotta fu anche la mia abitudine a recarmi in anticipo in stazione e dunque decidere di approfittare di quell’offerta ghiotta.

La quarta di copertina, in effetti, promette bene e cattura l’attenzione del lettore che si fa solleticare da un titolo ben congegnato e da una trama accattivante. Peccato che vi siano pochi altri pregi.


Il mio anno di riposo e oblio è un racconto in prima persona di una ragazza senza nome di ventisei anni, che vive nell’Upper East Side di New York e che un giorno, a seguito della morte di entrambi i suoi genitori, decide di congelare letteralmente la sua vita, rinchiudendosi nel suo appartamento a Manhattan fornito di videoregistratore e pasticche, limitando i rapporti sociali alle necessità vitali. La vicenda inizia in medias res, già nel corso di questa “ibernazione farmacologica”, ma comprendiamo fin dall’inizio che il processo si è avviato mesi prima e solo a metà giugno del 2000 diventa un intento definito: la ragazza è già un’accanita consumatrice di svariati tipi di farmaci, frequenta una psichiatra dalla dubbia etica professionale, ma poco per volta si rafforza il desiderio di fuggire sempre di più dalla realtà, dalle persone, dalle interazioni umane.


Prendevo più di una decina di farmaci al giorno, ma era tutto molto controllato, pensavo, tutto alla luce del sole. Volevo solo dormire di continuo. Quello era il mio piano.

La protagonista, dunque, risucchiata dal vortice di questo proposito, progetta la sua vita in modo da riuscire a trascorrere le giornate e i mesi (fino al compimento di questo fantomatico anno) senza compiere quelle azioni minime che la vita quotidiana impone, quali procacciarsi il cibo, pulire la casa, lavare i vestiti, vestirsi!, lavorare: si licenzia dal suo lavoro in una galleria d’arte di Chelsea, paga le tasse per un anno intero, fa in modo che le bollette siano accreditate sul suo conto corrente, si organizza per un servizio di ritiro/lavaggio/riconsegna della biancheria sporca, avvisa il suo portiere di gestire la corrispondenza, si accerta che la sua rendita (che di fatto le permette di vivere) venga investita e la disoccupazione di cui gode che venga accreditata, fissa degli appuntamenti regolari con la psichiatra in modo che questa le prescriva le medicine che le occorrono.

Questa parte è per certi versi sorprendente, perché l’autrice dedica dei passaggi importanti a “risolvere” ogni eventuale problema che al lettore verrebbe in mente se si immaginasse addormentato o non cosciente per un intero anno: premesso (e da non sottovalutare, fino alla fine del libro) che ci troviamo all’inizio dell’anno Duemila, e che dunque gli aspetti di iperconnessione e interazione tramite social sono ancora lontani, è interessante immaginare questo ritiro dalla vita nel mondo attuale. Sarebbe fattibile? A quali condizioni reggerebbe? Quanto tempo passerebbe prima che qualcuno chiami “Chi l’ha visto”?


Tuttavia, è su questo piano (possiamo dire) superficiale che si attesta la narrazione: sì, è vero, il lettore viene catturato dall’assurdità del piano; sì, è vero, seguiamo con curiosità quasi morbosa l’elenco dei farmaci che vengono trangugiati ogni giorno per stordirsi dalla protagonista. Ambien, Nembutal, Solfotol, Benadryl, Zyprexa, Ativan, Placidyl, Lamictal, fino al terribile Infermiterol, farmaco che provoca un blackout di giorni interi, sono solo alcuni dei nomi delle pasticche che la ragazza ingoia mixandoli in modo da relegarsi ad uno stato di costante incoscienza possibilmente senza sogni. Ma il romanzo si ferma qui.


Se le premesse sono interessanti e l’aspettativa è quella di una storia nello stile di Le regole dell’attrazione o per certi versi persino di American Psycho, l’autrice – per quanto abbia dichiarato in diverse interviste di vedere in Bret Easton Ellis il suo riferimento letterario – non riesce a portare il racconto ad un livello superiore, non riesce ad emanciparsi dalla superficialità dei singoli fatti inanellati uno dietro l’altro. Che poi, per essere chiari, non sono numerosi i fatti raccontati nel libro: al centro abbiamo la protagonista, attorno appaiono a sprazzi le pochissime persone con le quali interagisce (che si contano sul dito di una mano), ovvero la dott.ssa Tuttle, l’amica Reva, l’ex fidanzato (?) Trevor, gli impiegati del bar dove si rifornisce di dolci e caffè, e come cornice troviamo questo diario egoriferito di una giovane newyorkese benestante che decide di sottrarsi all’azione, agli eventi, ai doveri, alle sensazioni. Il lettore segue la ragazza mentre poco a poco smantella ogni brandello di contatto con la realtà, passando dalle interazioni sociali minime iniziali (scendere a comprare il caffè, recarsi dalla psichiatra, andare al lavoro) al raggiungimento di una perfetta ibernazione finale, in cui si libera di ogni cosa presente in casa, installa una serratura che la chiude letteralmente in casa, progetta gli ultimi quattro mesi della sua vita come alternanza tra sonno e incoscienza e affida il disbrigo delle questioni essenziali a Ping Xi, artista occupato di “vegliare” sulla sua sorte, il quale tenterà addirittura di trasformarla in arte.


Quella della protagonista è una vera e propria diserzione alla vita, eppure non ha niente di potente. Non vi è uno scopo, non vi è una ribellione né una dichiarazione d’intenti. Non si comprende l’esistenza di un livello profondo nei personaggi, che galleggiano in questa rappresentazione sonnambolica ma sempre superficiale. Non vi è una critica della società, non vi è condanna del capitalismo e del mito del lavoro, non si vedono i lati grotteschi e terrificanti del posmodernismo di cui scrive Fredric Jameson. La protagonista, nelle prime pagine, dice “ero schiacciata da infelicità, ansia, desiderio di sfuggire dalla prigione del corpo e della mente”, ma non percepiamo mai queste emozioni, non vi sono mai passaggi che ci permettono di scorgere il lato umano e non artificiale – in quanto personaggio di fantasia – della ragazza. Non vi è un dramma, non c’è tragedia né commedia.

Vorrei usare parole come “rivoluzionario”, “innovativo”, “provocatorio” per definire questo libro, ma non vedo alcuno di questi caratteri dispiegarsi veramente nella narrazione. Mi sembra, al contrario, un esercizio (un omaggio, se volessimo essere gentili) di stile di un appassionato dei romanzi di Ellis, dei quali viene scimmiottata l’ambientazione e lo stile dei personaggi senza comprendere l’essenza di quel tipo di racconto. A dimostrazione di questo punto vi è, a mio avviso, l’epilogo del libro, su cui non mi dilungherò per non incorrere negli odiosi spoiler, ma che rappresenta in toto la debolezza dell’intera storia. Anche in questo caso, l’assenza di analisi o di riflessione diventano macigni difficili da ignorare per una lettrice pretenziosa quale sono io: in una decina di pagine o poco più, trascurando i meccanismi elementari della narrativa, improvvisamente questo incubo farmacologico in cui eravamo intrappolati svanisce, ogni cosa si sistema, la protagonista sembra guardare il nostro sguardo perplesso e dirci “embè? Cos’è successo?”. L’amaro in bocca per l’occasione sprecata, ahimè, rimane.

Ho letto delle suggestive riflessioni che assimilavano la protagonista della Moshfegh al Bartleby di Mellville, ma non vi è ne Il mio anno di riposo e oblio nulla che possa ricordare la statura di questo personaggio; l’immobilità e invisibilità del giovane scrivano sono anche persistenza, il suo dolore ha il carattere dell’universalità, la sua resistenza al sistema precostituito ci restituisce una figura potente e dunque un caposaldo della rappresentazione letteraria. La ventiseienne newyorkese, invece, non incarna nulla di tutto ciò. La Moshfegh gioca pericolosamente con il mito del depression nap ma non ci riferisce altro che la storia di una fuga, la sottrazione alla realtà che non si realizza nemmeno con un’esplosione o con un’implosione, è solo l’assenza a definire questo racconto: l’assenza di profondità, l’assenza di spunti di riflessione (che pure potevano non mancare), l’assenza di un volto, l’assenza di una fine, sia essa condanna o resurrezione. La vita a New York scorre normalmente, fuori c’è il sole e ci dimenticheremo presto di questa ragazza, se non altro perché è l’11 settembre 2001.



 

VOTO: 2/5


Qualche informazione utile...

TITOLO ORIGINALE: My Year of Rest and Relaxation

CASA EDITRICE: Feltrinelli

ANNO DI EDIZIONE: 2018

PAGINE: 240

PREZZO: 17 €

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