di Claudia Gentile
È suonata la campanella. Lungo il corridoio gli altri hanno mantenuto una distanza che mi circoscriveva come estranea. Qualcuno aveva attaccato al banco dove stavo per sedermi un’etichetta invisibile con il soprannome che in paese usavano dopo il mio rientro in famiglia. Ero l’Arminuta, la ritornata. Non conoscevo quasi nessuno ancora, ma loro ne sapevano più di me sul mio conto, avevano sentito le chiacchiere degli adulti.
Non avevo in programma di recensire L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio. Per questo articolo avevo scelto tutt’altro: La scopa del sistema di Wallace, sul quale ho ancora sentimenti contrastanti e un po’ di confusione (ma di questo forse ne riparleremo in un’altra occasione).
L’Arminuta è stato pubblicato nel 2017 e ha avuto un successo clamoroso, sia tra il pubblico che tra la critica. Mi ha sempre incuriosito, nei miei giri in libreria lo guardavo sempre, leggevo la quarta ma poi le mie scelte ricadevano su altri titoli. Nel 2020 è stato pubblicato il continuo della storia Borgo Sud, anche questo apprezzatissimo, e così mi sono decisa e li ho comprati entrambi (superando un grandissimo ostacolo per la mia paranoica psiche: uno è in edizione economica e l’altro ancora nella collana Coralli).
Questi due libri per mesi sono rimasti nella pila “prossime letture”, finchè una sera, appena chiuso il buon Wallace, un po’ per caso ho deciso di proseguire le letture della buona notte con L’Arminuta.
E perché diamine non l’ho fatto prima!!!
È uno di quei libri che ti ingloba fin dalle prime righe, che coinvolge mente e cuore, che non vuoi smettere di leggere anche quando è finito (e infatti subito dopo ho letteralmente divorato anche Borgo Sud).
La storia raccontata è quella dell’Arminuta, la ritornata in dialetto abruzzese, di cui non sapremo mai il nome. La protagonista, nata in una famiglia numerosa di prole e in disagiate condizioni economiche, a sei mesi viene “donata” a una coppia di parenti, benestanti e sterili. Questa pratica in realtà era abbastanza diffusa nel nostro Paese fino a nemmeno tanti decenni fa, ma in questo caso, in una domenica di agosto del 1975, la figlia viene riconsegnata alla famiglia d’origine. Il motivo non lo sappiamo e, soprattutto, non lo sa neanche lei, la accompagneremo nel suo dolore, nel suo spaesamento, nel suo trauma per tutto il libro.
L’Arminuta, cresciuta per tredici anni in una famiglia agiata, in un quartiere borghese della Città, dove frequentava amiche “di buona famiglia” come lei, vestiva bene, faceva danza, si ritrova letteralmente sbattuta in un appartamento del Paese, in una famiglia con troppi figli e troppo poco spazio, con una madre silenziosa di parole e di affetto e con un padre violento (mai con lei però). Deve dividere la camera con i suoi cinque, appena scoperti, fratelli e deve dividere un letto impregnato dell’odore di urina con Adriana, di tre anni più piccola di lei.
Nella sua “famiglia per forza”, come la chiama lei, non vi è alcun tipo di accoglienza, nessun sentimento di empatia per questa ragazzina: è una bocca in più da sfamare, deve imparare in fretta a dare una mano con le faccende domestiche, ed è meglio se si abitua in fretta ad abbandonare i suoi modi “altolocati”.
L’unica capace di capire il suo dolore e il suo disagio è la piccola Adriana che diventerà il suo legame più forte per tutta la vita. Adriana è la sorellina minore ma è quella che la protegge, che le insegna a cavarsela in questo terribile lato del mondo. Testarda, decisa, scapestrata è capace di una tenerezza commovente: Sono venuta a controllare se mia sorella sta bene. Lei è della città, risponde alla professoressa dell’Arminuta il primo giorno scuola, quando scappa dalle elementari per controllare che sua sorella stia riuscendo in qualche modo a cavandarsela anche senza di lei.
Il tema che sviscera Donatella Di Pietrantonio nei suoi libri è quello del rapporto madre-figlia, il legame che più di tutti influenza la vita di ciascuno, tanto quanto esiste e ancora di più quando non esiste. In questi romanzi ne analizza il lato più patologico. Da un lato c’è una madre incapace di esserlo, schiacciata dal contesto in cui vive: deve assicurare un pasto ai suoi figli, non ha tempo e non ha risorse per sfamarli di comprensione e sentimenti. Dall’altro c’è una madre che è stata disposta a tutto per diventarlo, senza troppi problemi morali o etici ha approfittato della situazione di disagio della prima per mettere fine al dolore di un ventre arido. È stata una buona madre, affettuosa, presente fino a che anche lei si è arresa alla situazione e, con una debolezza riprovevole, ha dimenticato di essere madre.
Tra loro, l’Arminuta, orfana di due madri viventi, che non può far altro che subire l’incapacità e l’egoismo altrui.
Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.
In Borgo Sud l’Arminuta è una donna adulta, con un divorzio alle spalle, che lavora all’Università di Grenoble.
Non voglio dilungarmi molto su questo libro per evitare spoiler del primo. Ma dopo aver letto L’Arminuta, non avrete bisogno di essere convinti a leggere Borgo Sud: sarete così coinvolti e vorrete così bene alla protagonista da non poter fare a meno di continuare la sua storia.
Una telefonata riporta l’Arminuta nelle terre della sua infanzia, e anche in questo caso il perché lo scopriamo con l’evolversi della narrazione. La protagonista è appena arrivata a Pescara, la Città, e si trova incapace di prendere sonno in una stanza d’albergo. Attraverso i suoi ricordi scopriamo gli avvenimenti di questi anni: la carriera, il matrimonio, la malattia della madre (quella biologica) e, soprattutto, il legame, controverso ma indissolubile, con Adriana che ha continuato e continua a dominare la sua sua vita. È il loro legame a essere sviscerato questa volta: Adriana è un uragano che entra e esce senza chiedere permesso nella vita dell’Arminuta, ma per quanto possano essere così diverse il loro rapporto è autentico. Nessuna delle due ha potuto avere l’amore materno (figlie di nessuna madre) ma sono riuscite a essere sorelle.
In Borgo Sud il rapporto madri-figlia è solo apparentemente passato in secondo piano perché l’anno raccontato nel primo libro è quello che ha invaso tutta la vita della nostra protagonista la quale, come con una maledizione che non si può togliere, non riesce a liberarserne.
Ma era mia madre. Era lei mia madre. Mi aveva data da crescere a un’altra donna, eppure ero rimasta sua figlia. Lo sarò per sempre. Le tracce di Adalgisa erano lentamente sbiadite nel mio cuore. Mi aveva regalato l’abito da sposa, telefonava a ogni compleanno. Io non la pensavo che di rado. Mia madre mi occupava dentro, vera e feroce. Restava in gran parte sconosciuta, non sono mai penetrata nel mistero del suo affetto nascosto. Chiuderò i conti con lei nella mia ultima ora.
La bellezza di questi due libri è resa ancora più potente dalla scrittura dell’autrice: diretta, essenziale, schietta e pungente come il dolore che racconta.
Una scrittura asciutta e spesso ruvida, intercalata da dialoghi in dialetto, ma con un grande potere evocativo.
L’ARMINUTA
VOTO: 5/5
Qualche informazione utile
CASA EDITRICE: Einaudi
ANNO EDIZIONE: 2017 PAGINE: 163 PREZZO: 12,00 €
BORGO SUD
VOTO: 4,5/5
Qualche informazione utile
CASA EDITRICE: Einaudi
ANNO EDIZIONE: 2020 PAGINE: 160 PREZZO: 18,00 €
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